COSA POSSONO I CORPI?
Performance di Cesare Pietroiusti (a cura di Post Disaster + studioconcreto)
Quando mi avete portato qui per la prima volta [in Piazza Fontana, NdT], mi sono reso conto che si trattava di un posto che io conoscevo per averne parlato con Nicola Carrino, l’autore di questo intervento urbano, un artista che ho avuto la fortuna di conoscere e con cui ho condiviso anche molto tempo e riflessioni. Poi ho visto lo spazio dove finiremo la camminata, che è un teatro modernista in periferia, e mi è subito venuto in mente un testo che nella storia della seconda avanguardia, cioè dall’avanguardia degli anni Sessanta, è rimasto fondamentale per motivi abbastanza curiosi, perché è un testo che vuole collocarsi criticamente, in senso negativo, sul minimalismo e che invece, col tempo, finisce per diventare una celebrazione del minimalismo stesso.
Non voglio fare una lezione di storia dell’arte ma vi invito a riflettere sulla presenza, ciascuno la propria e ci tengo ad elaborare assieme a voi un concetto, se non è chiaro vi prego di invitarmi a chiarirlo.
Michael Fried è l’autore del testo il cui titolo è “Art and Objecthood” cioè arte e oggettualità, il rapporto tra l’opera e l’oggetto, ed è un testo del 1967. Si riferisce in particolare alle opere minimaliste più famose e iconiche del periodo, cioè della metà degli anni Sessanta, dell’area soprattutto newyorkese, Bob Morris, Donlad Judd ecc. Grandi oggetti di fattura industriale, senza una intenzione rappresentativa, oggetti che non rappresentavano nulla se non sé stessi. Non era astrazione in senso puro, perché l’astrazione è un fenomeno più pittorico che riguarda la superficie, questi erano dei veri oggetti, cubi, parallelepipedi, sfere, che rappresentavano solo quello che erano. Nicola Carrino usa un linguaggio che è evidentemente influenzato anche dalla esperienza minimalista della scena newyorkese.
Qual è la critica di Michael Fried? Fried dice: “Questi oggetti non rappresentano niente, quindi io, spettatore, è inutile che li guardi, non serve a niente che io li guardi. Però che cosa sono quindi, nella galleria, nel museo, in cui prendono posto? Sono delle specie di esche, di cose che attirano le persone e di fatto creano una specie di scena teatrale”, quindi, conclude, non sono opere d’arte ma “oggetti di scena”, non sono “da guardare”, piuttosto, è la presenza di chi entra nella mostra che diventa, insieme ad essi, parte della scena.
Questa lettura è molto interessante perché per Fried questa era una critica, era voler dire: il minimalismo non è arte, è un’altra cosa, è un elemento di base di una scenografia di tipo teatrale e performativo.
Di fatto quella che negli anni Sessanta era una critica, negli anni Novanta è diventata una visione dell’opera d’arte come creazione di un contesto in cui è il pubblico che “fa” la cosa, l’opera; sono le persone che danno un senso alla situazione e col tempo, come dicevo, l’osservazione è diventata, invece che una critica, una celebrazione del minimalismo.
Se ci pensiamo Michael Fried parla di teatro, però il teatro per come lo conosciamo nella visione tradizionale è una rappresentazione orientata da una storia, da un copione, da una sceneggiatura, in cui gli attori recitano una certa parte. Noi che andiamo a vedere un oggetto minimalista non recitiamo una parte se non quella di visitatori di un museo o di una galleria, e di volta in volta, e questa è l’ipotesi su cui vorrei che riflettessimo stasera, ciascuno di noi singolarmente o in gruppo come siamo adesso, dà senso all’oggetto minimalista, ovvero dà senso ad una situazione nuova che somma, che mette insieme l’oggetto minimalista e le persone.
Noi qui siamo più o meno in quaranta e siamo vestiti in un certo modo, abbiamo età differenti, se qui ci fossero quaranta persone diverse da noi, la scena sarebbe altra, quindi il teatro particolare che noi stiamo creando, supponendo di stare interagendo con questi parallelepipedi di Carrino, è un teatro particolare in cui le presenze delle persone danno ogni volta un senso diverso.
Ora è chiaro che, se l’oggetto non rappresenta niente, io sono abbastanza d’accordo con Michael Fried, è quasi inutile che uno si metta a guardarlo. Capisco che forse Carrino volesse rappresentare la chiave che apre la città e realizzare un intervento che combinasse l’oggetto minimalista puro e semplice con la gradinata e la seduta, con lo scalino, con la riflessione su quel modulo semplicissimo che è l’angolo retto e la L però di fatto possiamo considerare questi oggetti di Carrino come oggetti minimalisti e la situazione a cui lui ci chiama, - capisco benissimo che non è solo questo, la fontana è una vera fontana - però è sicuramente vero che questi oggetti ci chiamano ogni volta ad una creazione di una nuova situazione e quindi ognuno di noi dà senso all’oggetto, a questi oggetti; ognuno di noi, ogni volta che entra in contatto non è in una condizione puramente di spettatore che guarda e interpreta una cosa che ha il suo significato, ma glielo dà.
Questa è l’ipotesi, è una forzatura, me ne rendo conto, ma è l’ipotesi su cui vi invito a riflettere: dare senso al luogo in cui si è; dare senso, attraverso una presenza corporea ed eventualmente, dove è possibile e dove accade anche attraverso un discorso, una presenza discorsiva: il linguaggio, la parola, insieme al luogo in cui ci si trova, e all’oggetto fisico davanti al quale ci si trova. Siamo noi che diamo senso alla cosa, non c’era un senso prima e ogni volta cambia in funzione del fatto che ogni singolarità, particolarità di gruppo crea un senso, un significato diverso. Questa funzione la potremmo definire presenza; sto usando un termine filosofico della fenomenologia, però è anche un termine comprensibile a tutti: la presenza del nostro corpo, del nostro discorso dà senso al luogo in cui siamo.
È chiaro che se io entro in un supermercato per fare la spesa sto indubbiamente dando senso ad un sistema, è un senso abbastanza ripetitivo, chiunque di noi va a fare la spesa fa la stessa cosa. Probabilmente non sente una presenza, immagina che quel supermercato starebbe lì comunque, funzionerebbe allo stesso modo che io ci sia o meno. Viceversa una situazione di questo tipo ci chiama, ci attira a riflettere sul fatto che la nostra presenza è significativa, che ogni volta già solo il nostro corpo dà senso a quel luogo. È curioso il fatto che l’inizio della nostra camminata sia in una piazza ispirata all’oggetto minimalista, quindi all’oggetto puro e semplice che si richiama all’oggetto specifico e senza funzione rappresentativa dei minimalisti e quindi non opera d’arte ma casomai scena teatrale ed è curioso che, non per mia scelta ma degli organizzatori, finiremo la camminata in un teatro. Quindi le riflessioni rispetto al teatro le facciamo lì per non appesantire il discorso.
Per riassumere e semplificare: situazione A: spesa al supermercato, situazione stereotipata;
situazione B: oggetto minimalista non rappresentativo, senso dato dalla presenza del corpo, del discorso, delle singolarità.
Diciamo che c’è una situazione in mezzo tra A e B che è lo spostamento, quindi già andare da un posto all’altro, anche quando mi muovo da casa al supermercato, questo spostamento seppur obbligato dall’autobus, dalle strade e dal traffico, è comunque un momento in cui io sto per fare una certa azione/funzione socialmente orientata e in quel passaggio possono accadere delle cose che non sono previste. Quindi la nostra camminata è legata all'idea che durante il percorso non si sta facendo qualcosa di specifico ma si è aperti ad una osservazione e forma di presenza, cioè alla possibilità di dar senso al luogo che si sta attraversando, che altrimenti non “ci sarebbe” se noi non lo attraversassimo.
Credo che alcuni dei luoghi un po’ marginali di questa camminata sono interessanti da questo punto di vista, quindi la camminata che facciamo è orientata dal percorso verso il luogo che è la ex facoltà di Scienze della Comunicazione, attuale sede del Teatro Tatà, ma la meta finale è un teatro all’aperto, abbandonato.
Vi invito a fare questa camminata cercando non tanto di interpretare o giudicare esteticamente, urbanisticamente o addirittura socialmente i luoghi che attraversiamo, ma provando a vedere come la presenza fisica di ciascuno di noi e del gruppo nel suo insieme dà senso a quel particolare oggetto, a quel particolare luogo, a quel particolare passaggio in cui noi ci troveremo. Questo può accadere come può non accadere, non è un obbligo, ma è un invito a riflettere in un certo modo perché l'ipotesi è che la sensazione di presenza, cioè della possibilità che la nostra singolarità dia senso ad una situazione urbana è il fondamento dell’azione politica e forse anche dell'azione artistica. Quindi, siccome attraverseremo delle zone abbastanza particolari, è possibile che questa funzione sia attivata, da una parte è molto semplice, ma da una parte è complicato; ipotizziamo che si possa fare e ripeto non è un obbligo ma un invito alla riflessione. Partire da questo luogo mi sembrava interessante sia per l’amicizia nei confronti di Carrino ma anche perché questo è un esempio forte e significativo di un intervento urbano in cui l’oggetto minimalista non è un monolite con una forza iconica di tipo cinematografico, ma è un invito a considerare la piazza come un luogo dotato di una sua accoglienza, nonché, allo stesso tempo, una riflessione sulle forme come elementi determinanti per l’affinamento della percezione: la forma per Carrino era molto importante.
06 settembre 2020
Taranto
quartiere Tamburi